23 febbraio 1917

Dalla mia finestra le vedevo avanzare lungo la strada verso la caserma militare, malvestite e sporche tanto che molte di loro non sembravano neanche donne.

Le sentivo gridare come ossesse invocando il ritorno dei loro mariti dal fronte occidentale, in un miscuglio di fragore, urla e facce stravolte, dalle quali, stranamente, si coglieva qualcosa di sereno, pacato. Non vi era traccia di violenza in tutto ciò. Nel corteo vi erano persino dei ragazzi ed una sventurata aveva un bimbo mal nutrito e sporco in braccio.
Su quest’ultima il mio sguardo si fermò più a lungo, attratto dalla strana aurea che permeava la donna. Povera, ma non dimessa, affamata, ma non piegata, urlante, ma tranquilla, sembrava chiedere ciò che credeva onestamente le spettasse: il proprio marito ed una vita semplice con un gioco e del pane per il figlio.

Dall’interno della caserma, gli uomini delle più fortunate non osavano guardare quel corteo che avanzava, vergognosi della loro sorte migliore per non essere andati al fronte. Molti soldati erano amanti delle donne che si avvicinavano al cortile.

I corrieri erano appena partiti alla volta del Palazzo della Guardia nel centro di Pietrogrado e impazienti si stava aspettando la risposta, quasi temendola.

I cannoni, lontani, non riuscivano a far sentire il loro tuono, ma probabilmente non avrebbero coperto ciò che qui stava per accadere.

Le donne sapevano d’essere le prime al mondo a fare questa richiesta, ma per nulla scoraggiate, nella loro ostinatezza, continuavano a urlare il loro desiderio. “Fine della guerra e ritorno a casa dei mariti”.

Mentre le guardavo, sentivo da altre vie altri rumori di altri cortei, più violenti, più sanguinari. Cortei di uomini che chiedevano la fine di un’oppressione durata mille anni.

Restai a guardare quella donna ed il suo bambino, pensando al marito che forse presto sarebbe tornato dal fronte per iniziare subito la nuova guerra che stava per scoppiare tra le nostre case.

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