Ferma all’inizio della sterminata pianura, una lacrima le solcava lentamente la guancia. Alta quasi un sark, capelli castano scuro sfrangiati e ribelli, occhi verdi dal lungo taglio orizzontale, fisico statuario, stava guardando quella landa che a perdita d’occhio era davanti a lei. Una immensa solitudine vi si coglieva, come quella che nel suo cuore era data dal vuoto che sentiva. Immobile, spalle dritte, viso alto, sguardo fisso, altera, sembrava volersi estraniare da tutto ciò che la circondava. Solo un leggerissimo tremore delle labbra tradiva il suo conflitto interno. La lacrima aveva un gusto amaro che le piaceva. Ormai c’era abituata.
Dietro di lei s’intravvedeva in lontananza il villaggio che da poche ore aveva abbandonato.
Si era sempre sentita sola, lì, straniera tra la sua gente, senza sapere perché, ma intuendolo in cuor suo. Un padre forestiero le aveva donato i suoi geni che la rendevano sola. Era considerata brutta e poco adatta ad essere donna e madre. La sua altezza non consentiva al più alto del villaggio di arrivare alle sue spalle. I suoi seni piccoli ed alti erano troppo diversi da quelli enormi e cascanti delle altre donne. Il ventre piatto e le gambe affusolate erano chiari segni di un’altra etnia. Tutto in lei era straniero ed ancor di più la sua bramosia di conoscenza.
Aveva imparato la scrittura degli antichi, unica donna che ci fosse mai riuscita, e con un vecchio stregone stava coltivando l’arte del curare i pensieri malati. Tutti si chiedevano a cosa servisse questo sapere ad una femmina che doveva solo accendere il fuoco e badare ai bambini. Dentro di lei, un grido di ribellione era soffocato da anni.
La notte prima aveva deciso, preso pochi indumenti di pelle di lerk, qualche pezzo di smertek ed aveva abbandonato le case che adesso erano alle sue spalle.
Non sapeva cosa fare. Era certa di non voler tornare indietro, ma non sapeva come riempire il vuoto che aveva dentro.
Immobile guardava fisso davanti a lei. Ignorò la leggera fitta alla mandibola, grata del fatto che ciò la facesse sentire viva. Si asciugò la lacrima, tirando leggermente su col naso. Il suo corpo di donna non poteva nascondere del tutto la bambina che a ventotto anni era ancora in lei. Nel suo villaggio a quell’età si era già vecchie. Lei, invece, aveva una fortissima voglia di apprendere e di conoscere.
Secondo le consuetudini era il Desker, il giorno del riposo. Decise che avrebbe continuato il viaggio l’indomani.
Con qualche ramo preparò una piccola staccionata che l’avrebbe protetta dal vento diretto, ponendola volutamente in modo da coprire la vista del villaggio. Sistemò l’erba del giaciglio così da vedere la pianura. Accese il fuoco e passò alcune ore dedicandosi alla cura di sé stessa. Curò il suo corpo come le aveva insegnato la madre e la sua mente come le aveva insegnato lo stregone. Con gesti lenti e tranquilli si preparò e consumò il cibo, godendo della leggera brezza che come un dolce amante le carezzava la pelle ambrata.
Il giorno trascorse come la regola voleva. Forse gli antichi sapevano che il riposo è necessario più alla mente che al corpo e ideando la sequenza di giorni di lavoro e di sosta, avevano fatto il loro regalo più bello ai lontani figli e nipoti. Lei lo capiva ed era diversa anche in questo.
Dormì tutta la notte vegliata da una stella accesa dalla gentile mano di un lontano e pietoso Dio.
Le luci dell’alba la svegliarono dolcemente. Una nuova serenità era in lei e le faceva sentire meno opprimente il grande vuoto. Era come se l’aver trascorso da sola tutto il Desker, le avesse dato la sensazione di possedere la forza per andare avanti, rinfrancandone lo spirito e scaldandole il cuore. Aveva voglia di raccontare a qualcuno che era contenta di quel giorno trascorso così. Su una larga foglia, disegnò i simboli dell’arcaica lingua che aveva imparato, per fissare la memoria del fatto.
Guardò ancora la pianura di fronte a sé. Un tappeto di erba si muoveva ondeggiando seguendo il soffio delicato del vento. In lontanza si intravvedeva qualche animale che pascolava mollemente. Alcuni grandi alberi accoglievano protettori gli uccelli della zona.
Strisce di cielo infuocato dal sole nascente, si alternavano a quelle scure della notte che abbandonava il luogo.
Un brusio leggero testimoniava la presenza di vita.
Ringraziò mentalmente gli antichi per aver disposto il giorno di riposo. Ne comprendeva appieno il disegno potente e la sua funzione rigeneratrice, ripromettendosi che in seguito avrebbe sempre trovato un momento per sé.
Non si girò a guardare le case. Raccolse le sue cose, leccò una goccia di sangue dal polpaccio e oltrepassando il confine tra le due vite, si incamminò speranzosa verso il suo futuro.